ARTICOLO 18 E RIFORMA DEL LAVORO…
La riforma dell’Articolo 18, fortemente voluta dal
Governo Monti e dall’esecutivo tecnico, contraddistingue un passaggio importante
e significativo nella storia di questo Paese. Le modalità che hanno portato
alla luce le modifiche introdotte segnano da un lato un nuovo modo di
considerare e di rapportarsi con i Sindacati e dall’altro superano, in maniera del
tutto brusca, quanto previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che, dagli anni Settanta, disciplina il reintegro nel posto di lavoro a
coloro che venivano licenziati senza una giusta causa nelle aziende con più di
15 dipendenti.
L’elemento che soprattutto da un punto di vista
politico dovrebbe fare riflettere, è che passati solo pochi giorni dalla formulazione
della proposta piovono dagli schieramenti che appoggiano questo Governo, Pd e
Pdl, proposte di modifiche e correzioni
varie che da un lato rilanciano un
modello che si ispira alla Germania e dall’altro rivendicano maggiore coraggio
da parte dell’esecutivo.
Prima della riforma Monti il licenziamento sostanzialmente
era valido solo se avveniva per giusta causa, in assenza di tali condizioni il
Giudice poteva di fatto obbligare il reintegro del lavoratore. Ora il reintegro
può avvenire in caso di licenziamenti discriminatori, perché per quelli economici
è previsto un indennizzo fino a 27 mensilità, senza il reintegro, e per quelli
disciplinari il giudice deciderà tra reintegro o indennizzo, variabile per mensilità.
In pratica chi si trova con in tasca un’indennità dovrà comunque cercare una
nuova occupazione, senza dimenticare che un 45enne che esce dal mercato del
lavoro ha una grande difficoltà a ricollocarsi.
Nella riforma del lavoro, i Ministri tecnici hanno
anche favorito l’occupazione degli immigrati disoccupati già presenti in
Italia, prevedendo che la perdita del posto di lavoro non comporterà più la privazione
del permesso di soggiorno. In pratica la Fornero ribadisce la necessità di prolungare
il periodo in cui il lavoratore può essere iscritto alle liste di collocamento,
estendendo di fatto anche il permesso di soggiorno sino al nuovo lavoro. Ci sono voluti anni per introdurre nel nostro
Paese una legislazione per il controllo del territorio e per legare i flussi
migratori ai posti di lavoro, - anche in
considerazione del fatto che il disoccupato non perde automaticamente il
permesso di soggiorno – e così facendo i tempi non sono più certi e viene
incentivata di conseguenza la permanenza
illegittima dello straniero sul territorio.
Peraltro il licenziamento per ragioni economiche, che
non prevede il reintegro ma solo un indennizzo, rischia di spingere le aziende
a liberarsi dei lavoratori con un grado maggiore di anzianità e che costano
maggiormente al datore di lavoro. Lavoratori che, difficilmente, riusciranno a trovare un altro
impiego nel breve termine.
Il punto è che da un lato si avranno lavoratori
anziani in mobilità e dall’altro l’allungamento dell’età pensionabile che genererà
numerosi lavoratori precari.
Un pericoloso circolo vizioso che non può dare
risposte concrete neppure alle aziende stesse. Il problema non è infatti la
riforma del lavoro in sé, quanto il fatto che manca il lavoro.
Anche altri Paesi europei hanno provveduto a riformare
il mercato del lavoro: in Germania il reintegro è obbligatorio se il lavoratore
è ingiustamente licenziato e non è previsto il licenziamento per motivi
economici, in alternativa il datore di lavoro deve spiegare le ragioni che
rendono impraticabile il reintegro e il dipendente ha diritto a prestare la sua
attività durante la vertenza giudiziaria. In Francia, invece, il reintegro non
può essere imposto dal giudice ma spetta comunque un risarcimento e un’indennità
del danno subito dal lavoratore. Altra questione riguarda il fatto che molte aziende
difficilmente apriranno nuovi contratti di collaborazione coordinata e
continuativa, con l’effetto che le norme che reclamano oggi maggiore flessibilità
creeranno più disoccupazione effettiva di quella presunta.
Non dimentichiamo poi anche i lavoratori
cosiddetti “esodati” che, incentivati ad uscire dalla propria azienda in cambio
di una quota di reddito sufficiente per raggiungere l’età pensionabile, con le
nuove regole legate all’età pensionabile introdotte proprio da Monti, - con il
cosiddetto “scalone” -, si trovano ora senza
più un reddito. Gli incentivi, infatti, che
avrebbero dovuto aiutarli per un periodo di due o tre anni, non sono più
sufficienti a coprire un arco temporale diventato anche di nove anni. Un
fenomeno che oggi riguarda oltre 350 mila persone.
Uno dei tanti paradossi dell’azione perpetrata dal Governo Monti
che, non solo non riesce a dare risposte, ma mette in difficoltà una parte
consistente della popolazione. Una rivoluzione lavorativa mancata e conseguenze
che da qui ai prossimi anni investiranno le famiglie italiane, con il
beneplacito imbarazzante di Pd e Pdl.
Davide Boni
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